Vita da volontari

Differenza e ripetizione

(Marta) Al villaggio la mattina ci si alza presto, col canto del gallo che spezza il silenzio dell’alba dando il via ad un concerto di suoni quotidiani. Ogni rumore è amplificato, tutto risuona più chiaro, perchè in contrasto con un silenzio pervasivo. Le giornate si trascorrono indaffarati, in compagnia, sotto un cielo che occupa tre quarti del campo visivo. Ogni tanto qualche anziano passa a casa anche solo per un saluto, mai affrettato. Oppure sei tu che decidi di andare a comprare un po’ d’olio al bazar, sapendo che tornerai sicuramente dopo un paio d’ore: non puoi non scambiare quattro chiacchiere con Pindu il macellaio o fermarti da Grace a pelare un po’ di piselli in una conversazione fatta solo di sguardi e sorrisi. Sì, chiacchiere! Perché se smetti di pensare alla mancanza di un codice linguistico comune scopri quanto la comunicazione sia qualcosa che va ben oltre. Ogni cosa o persona appare ricca di sfumature, ogni avvenimento carico di significato. Passano i giorni e smetti di avere bisogno di riempirlo quel silenzio inizialmente così ingombrante, ti ci abbandoni. Esisti al ritmo della Natura, padrona incontrastata, il sole come unico orologio, unico principio del divenire: calata la sera, limpida e calma, è il momento di una doccia a lume di candela e tu ti senti incredibilmente vivo mentre ti versi po’ d’acqua addosso, affaticato come sei dopo una giornata tra mattoni da spostare, inseguimenti a simba na pundamilia (leone e zebre) con i bambini della scuola o passeggiate nei boschi con Assunta.

(Alessandro). Martedì mattina di buon’ ora, ci rechiamo a scuola, dove verrà messa in pratica parte del lavoro da svolgersi presso il bananeto adiacente agli edifici. I bambini, coadiuvati da noi volontari, si dividono tra pacciamatura, concimazione ed irrigazione degli alberi, lavorando, giocando e ridendo, prendendosi in giro se qualcuno di loro è protagonista delle nostre fotografie. L’acqua per le piante viene presa dall’unico pozzo attualmente esistente, ma la  cosa non costituisce un peso per il lavoro in quanto Alfio, uomo instancabile e ottimo collaboratore, diverte i piccoli agricoltori, sospeso tra la voglia di farli ridere e una malcelata preoccupazione che uno di loro cada dentro il pozzo. Durante il seguirsi delle giornate l’iniziale timidezza lascia il posto alla voglia di lavorare e scherzare insieme da parte dei bambini, che prendono sempre più consapevolezza dell’importanza di ciò che stanno facendo e del motivo della nostra presenza presso la scuola. Il lavoro prosegue così per tutta la settimana e il venerdì in tarda mattinata alla soddisfazione per quanto svolto fino ad allora si aggiunge la gioia dei nostri giovani collaboratori nell’apprendere che con l’arrivo degli altri volontari, oltre alla prosecuzione dei lavori, saranno loro dedicati alcuni pomeriggi di giochi.

(Anna). La scuola è il io posto preferito, quello in cui avrei voluto passare più tempo e quello in cui vorrei investire di più. Qui io e gli altri volontari ci siamo messi in discussione e abbiamo proposto ai bambini delle attività e dei giochi cooperativi. Che emozione sentirsi parte di un cerchio composto da circa sessanta bambini tanzaniani. Riuniti sotto il sole in un campo da calcio con le due porte sgangherate ho vissuto dei pomeriggi stupendi. Decidere cosa e come proporre, agli alunni della scuola, attività piuttosto che altre non è stato facile. Per prima cosa ci siamo interrogati sul senso del “gioco”. I bambini non possiedono dei giocattoli ma se li costruiscono con il materiale di recupero e tale elemento denota già una grande creatività. Di conseguenza anche noi abbiamo scelto di utilizzare materiale di recupero. Sorgono in me diversi interrogativi. Quale impatto hanno avuto questi giochi? Come si sono incontrate la cultura locale e quella dei volontari (noi non volevamo importare nessun modello e soprattutto tener lontano da questo piccolo microcosmo le nostre rigidità culturali…)? Quanti elementi sono rimasti incompiuti dopo questo incontro?

(Sara) La vita al villaggio ci ha messo subito alla prova: accendere il fuoco per cucinare, riempire secchi e secchi di acqua per fare la scorta, perdendone la metà lungo il sentiero, preparare l’acqua potabile e poi iniziare a conoscere le prime persone, imparare a dire timidamente le prime parole in swahili correndo anche il rischio di sbagliare. La lingua è stata un grosso ostacolo, ma buttarsi e magari concludere una frase sbagliata con un gran sorriso, ha reso ogni colloquio unico e divertente, abbattendo ogni barriera di incomprensione!!!

(Sabrina) All’inizio mi sembrava di vivere in una realtà irreale, mi sentivo io l’extraterrestre scrutata, ma poi, più passavano i giorni e più la serenità che quel posto mi dava e che la gente mi trasmetteva, mi faceva sentire bene come non mai. Le giornate passavano veloci tra lavori in casa, pasti da preparare, a volte davvero immangiabili, lavoro alla diga o meglio semplice aiuto (visto che già al secondo mattone che spostavo mi sentivo morta), ma ciò che mi ha colpito è stata l’estrema ospitalità delle persone che ci hanno accolto come loro graditi ospiti.

(Alina) Ci hanno insegnato a preparare i chapati ed i mandasi (nostra salvezza in giornate con carenza di cibo!!!), invitati a cena e a pranzo nelle varie famiglie. Ci siamo abbuffati di maiale e banane fritte sotto l’accogliente “macelleria” di Pindu e abbiamo pure partecipato a un matrimonio!!! E’ stata un’esperienza unica poter partecipare e condividere quel momento con loro. L’imbarazzo iniziale, soprattutto nel momento del ballo di noi mzungu (europei), non è mancato, ma la mia timidezza è stata vinta dalla voglia di vivere appieno anche quel momento così strano e fuori dai miei soliti atteggiamenti.

(Andrea) Il villaggio, la gente, i bambini mi incuriosiscono, tutto e tutti sono così ospitali. Gioco, parlo, cucino, imparo, scruto, conosco, mi innervosisco, mi deprimo, divento nostalgica, mi sento inutile, scopro, mi confronto, osservo, degusto, mi rilasso, ammiro. E così continuo per giorni. Giorni che mai sono uguali, giorni condotti all’insegna della spontaneità. Solo così trovo il mio equilibrio. Alla fontanella incontro alcuni ragazzi e sperimento i miei timidi e irrisori termini di quella lingua assolutamente sconosciuta. Ma presto capisco che i limiti linguistici non sono un muro né un ostacolo. La comunicazione va oltre: sorrisi, espressioni, gesti, movimenti del corpo, sguardi e silenzi. Sono onesta quando affermo che ho avuto la comunicazione più interessante e appagante della mia vita solo con sguardi fissi e densi silenzi.

(Martina) Insieme a un referente locale per l’associazione d’invio, abbiamo così il via allo studio di fattibilità del progetto che Terra e Popoli sosterrà nei prossimi anni, ovvero la realizzazione di un centro polifunzionale e la costruzione di un dormitorio per turisti, studenti o volontari che vogliano in futuro collaborare con essa. Il fatto di vivere in una casa del villaggio, senza luce né acqua corrente, e di seguire le abitudini degli abitanti del villaggio, ha sicuramente favorito la comunicazione e la vicinanza con quest’ultimi e ci ha permesso di attuare uno scambio interculturale che si è rivelato vantaggioso per entrambe le parti. Inoltre, abbiamo partecipato alla raccolta e al reperimento dei materiali che sarebbero serviti per la costruzione del tetto dei bagni del futuro dormitorio. Ci siamo, infatti, più volte recati nella foresta equatoriale che circonda il villaggio, accompagnati da ragazzi della zona, a reperire tronchi d’alberi che una volta seccati sarebbero serviti come struttura portante del tetto.

(Chiara) Quello che ho visto in questo mese è stata una realtà da osservare con umile e rispettoso silenzio. Ritengo che solo il silenzio possa aiutare a porsi domande adeguate e cercare invano risposte, che se non vengono da sé, va bene lo stesso perché porsi domande significa mettere finalmente in dubbio ciò che siamo stati fino ad ora, il nostro contesto sociale e il nostro mondo, per aprirsi all’altro. Servono umiltà e silenzio per capire che se partiamo con l’intenzione di insegnare ciò che questa gente conosce già molto meglio di noi, allora è meglio restare a casa nostra, fra le nostra arroganti mura.

(Margherita) La gente veniva da noi per parlare e per raccontarsi, per insegnarci, non per punzecchiarci con un bastone come delle cavie bianche in una gabbietta. E poi veniva per aiutarci. A lavorare, ma soprattutto a capire il senso del lavoro che stavamo facendo. Le nostre braccia molli disabituate a qualsiasi tipo di lavoro, la nostra scarsa resistenza al caldo, non possono niente davanti alla loro forza fisica e morale, ed è per questo che lavorare per loro significa veramente poco. Si può lavorare insieme però. Ma soprattutto, se si è abbastanza liberi dalla vanità, si può imparare.

(Alessia) È  uno dei tanti pomeriggi al villaggio in cui non sai mai cosa può succedere, nulla di programmato, di predefinito, in cui, passeggiando, incontriamo un anziano che con aria autoritaria ci invita a casa sua: impossibile rifiutare l’invito. Ci accomodiamo sotto due grossi alberi di mango, scambiamo qualche frase in uno swahili stentato, ma il senso di quelle parole lo abbiamo capito, senza tradurre, senza intermediari, perché i suoi occhi comunicano più delle stesse parole.

(Cristina) Non è semplice descrivere un sorriso sincero, un saluto cordiale, una donna che ti aiuta a portare un secchio d’acqua, la vera ospitalità, quella semplice, la saggezza di un anziano, una porta che si sbatte per il vento africano, un’emozione che non riesci a gestire davanti a dei bambini che cantano e pensare che è qualcosa che ti fa sentire felice. E’ bello sapere che bianco e nero sono due facce della stessa medaglia, sono la stessa cosa mischiate solo per fantasia di colori. Ritrovare, anzi scoprire una felicità che si trova nei gesti più semplici, quelli più veri. Il mio contatto con quei gesti è stato facilitato dalla mia ignoranza per quanto riguarda la lingua swahili, una difficoltà non indifferente che spesso mi ha fatto pensare a quanto in più avrei potuto dare o esprimere conoscendola. Subito dopo capivo che in quel modo forse avrei sottovalutato moltissimi gesti e anche la pazienza di chi si fermava a parlare con me, usando i  modi più svariati per farsi capire. Comunicare non è solo una parola dopo un’altra, anche un sorriso, un disegno sulla sabbia sono un ricordo speciale.

(Gabriella) Ed è vero, non te lo scordi mai più quel posto perché lì, per un attimo, semplicemente tu ti sei sentita parte e partecipe. Lo avverti lentamente: prima non lo cogli poi lo sfiori ma è necessario che passi del tempo per percepire veramente qualcosa, per collegare le paure ancestrali dell’infanzia, la limitatezza dell’essere, l’accettazione dell’essere mortali, il segreto delle emozioni e dell’amore. Lo avverti guardando loro e vivendo per uno strappo di tempo il segreto che loro è concesso. Il segreto è la coscienza del proprio posto all’interno di un universo molteplice che tu, distratta dalle protezioni e dalle cose artefatte della tua quotidianità, hai dimenticato, hai perduto tra le cianfrusaglie che hai riposto in soffitta.

(Stefania) Una mattina siamo stati a lavorare al pollaio. Abbiamo trasportato dei secchi pieni di sabbia utile per riempire gli spazi tra una fila di mattoni e un’altra. La struttura del pollaio c’era ma, oltre quella rifinitura, mancavano le porte e le finestre. Era un continuo sali scendi per quel leggero pendio dove era accumulata la sabbia.

(Valentina) Quale delizia è stato il pranzo! E non solo perché fossi affamata, ma per la reale bontà del suo gusto e l’indimenticabile consistenza. L’ho assaporato pole pole (piano piano): morbido, al dente e corposo, un profumo intenso e delicato. Confesso che anche le circostanze con cui è stato preparato e poi condiviso, in terra a circolo sotto il grande albero, hanno esercitato su di me notevole fascino e gradimento.

(Chiara) Lunghi pomeriggi trascorsi al negozio di Giuliana dove, con dolcezza, pazienza e disponibilità ci ha insegnato a cucinare mandazi, keki e chapati. Arrivavamo da lei, ci faceva sedere e aspettavamo che finisse di sbrigare le sue faccende per poi iniziare a cucinare insieme.

(Massimo) Di fronte la porta d’ingresso c’è la capanna: è rotonda e molto accogliente. All’interno c’è un tavolo di legno con degli sgabelli… Non so quanti siano, ma riusciamo sempre a sederci tutti. Questa capanna è l’anima della casa: qui si mangia, si gioca, ci si siede e si chiacchiera del tutto, ma anche del niente.

(Rosario) Che bello alzarsi la mattina col canto del gallo e l’aria fresca che entra dalla finestra. Mi alzo e vado sotto la capanna rotonda fatta di canna e con il tetto di paglia. È ora della colazione: tè, mandazi, caffè, burro e marmellata. Parliamo del più e del meno, c’è pure chi racconta il suo sogno notturno. Nel frattempo arriva Engribert. Devo andare con lui a scavare le fondamenta per il pollaio. Andiamo. Una volta arrivati Engribert entra in una stanza ed esce con una zappa e una pala. Mi spiega cosa devo fare. Parla, parla… ed io non capisco niente. Comunque si fa capire bene con i gesti. Dobbiamo scavare a una profondità di due mattoni una fossa lungo le lenze fissate sul terreno. Comincio a farlo ma mi accorgo che i miei colpi non sono decisi e che la mia mira non è proprio precisa: va da tutt’altra parte. Osservando bene il manico, vedo che non è proprio diritto e penso che, forse, per questo motivo lavoro male. Col passare del tempo mi abituo alle difficoltà e mi diverto tanto, anche se la terra è molto dura.

(Roberto)  A volte si va a prendere l’acqua in coppia semplicemente per farsi compagnia, ma spesso ci vado da solo. Mi piace calpestare dolcemente ogni centimetro di strada fino alla meta e ascoltare il rumore delle foglie secche. È come un componimento musicale la cui base è costituita da tanti piccoli suoni che si avvertono in lontananza: la legna che si apre in due nel colpo secco e deciso di quel gigante fatto di muscoli che con presa sicura afferra l’ascia e fa di quei tronchi pezzi di legna da poter ardere.

(Giovanni) Mi è capitato che a volte, per un appuntamento preso in precedenza o semplicemente per la voglia di andare a trovare qualcuno del villaggio, mi sono diretto verso una meta che è stata ben chiara nella mia mente e sono stato deciso e organizzato, ma è stato proprio in uno di questi momenti che ho fatto uno dei più grandi errori, cioè quello di non considerare cosa potrebbe accadermi nel tragitto, la gente che incontrerò, i posti nuovi, anche se in realtà alcuni li ho già visti: ogni volta li guardo con occhi diversi.

(Peppe) Camminando su e giù per il villaggio, nella trepidante attesa degli eventi, riscopro la vergogna della mia pelle, il distacco tra cuore e mente che sottrae per un attimo al mio spirito la lucidità dell’agire. È solo un attimo ma forgia, passo dopo passo, il mio avvenire.

(Alessia) Questo mio sentirmi a casa si traduce in qualche modo nell’appartenenza, nell’esser membro di una grande famiglia, nell’andare puntualmente ogni mattina a prendere l’acqua al pozzo, dimenticando l’esistenza delle comode condotte idriche della mia città, trovando piacevole cucinare sul fuoco o sul carbone, apprezzando la lenta preparazione del pranzo e della cena. Momenti di condivisone e scambio d’idee e opinioni, momenti ormai scomparsi nelle nostre famiglie occidentali a causa della tv e delle lancette dell’orologio che veloci scorrono e ci rincorrono. Ma poi mi rendo conto di essere una bianca.

(Sabrina)  Il vento soffia più forte, porta con sé l’odore di legna che brucia, il profumo di famiglie che si preparano per la cena…Come dimenticare quel profumo? In esso mi sono perdo! Mi perdo nei ricordi d’infanzia, di una giornata qualunque in cui assisto a casa dei miei nonni alla preparazione del pane fatto in casa. Il fumo di legno di pino si mescola armoniosamente col profumo di pane appena sfornato, stuzzica il mio naso e nella mia memoria s’imprime il ricordo di quella piacevole sensazione.

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